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    Diario del direttore artistico – 16

    Sedicesimo appuntamento con la rubrica che vuole raccontare, in maniera assolutamente non seriosa, gli eventi della rassegna, i personaggi che ne fanno parte, come artisti e organizzatori, i fatti particolari, visti dal direttore artistico della TERZA edizione della Rassegna “Angri a teatro”.

     

    17/03/2014

    Ieri, il Ferdinando della compagnia Anziteatro è stato salutato da un clamoroso successo di pubblico. Al punto che è stata fissata una replica fuori programma per il 23 marzo. Al di là della contentezza personale che ho provato nell’apprendere la notizia, è mia intenzione in questa pagina di diario, raccontare qualcosa in più sul legame speciale che intercorre tra me e questa compagnia.

    Innanzitutto, Antonio D’Andretta, il regista. Credo che una delle ragioni per le quali io continui a scrivere pièce teatrali, sia proprio l’apprezzamento che esse continuano a ricevere da lui.

    Ho un ricordo ben preciso, che voglio condividere con i lettori di questo diario. Il ricordo risale ad una quindicina di anni fa, o poco più. All’epoca, Anziteatro non esisteva ancora. Tuttavia, collaboravo già per “Angri ‘80” e sapendo che, di tutto il gruppo che anima il giornale, Antonio era colui che si occupava (e studiava) di teatro, mi convinsi, non senza imbarazzo, a fargli leggere qualcosa delle mie prime prove drammaturgiche. Allora una domenica gli portai alcuni atti unici: Amore, Un uomo è una donna è un uomo, Fallout, Ombre, L’alternativa panica, alcuni di quali ho pubblicato nel 2008 in un piccolo volume dal titolo Visioni di identità nascoste (che era pure il titolo dello spettacolo in cui furono portati in scena).

    Qualche giorno più tardi, lui aveva letto il tutto e incontrandoci mi disse: «Alcune soluzioni sono veramente geniali». Per me, sentire quel giudizio da una persona che già faceva teatro da tanto e che sicuramente era più ferrato di me in materia, fu una specie di investitura.

    Da quel momento, la nostra collaborazione non è mai venuta meno, e non posso non esserne felice, poiché Antonio ha una qualità inestimabile per un regista teatrale: non si sostituisce all’autore (io o chiunque altro), ma non per questo rinuncia a dare la sua personale lettura del testo. Il suo approccio è quello che preferisco: è un vero artigiano della scena. E come tutti gli artigiani non forza mai la mano, ma applica le regole del suo metodo per portare le cose laddove devono andare. Con una pazienza, della quale possono testimoniare tutti quelli che nel corso degli anni hanno recitato con Anziteatro, monta pezzo per pezzo ogni singola scena di una commedia, finché il risultato non è completo.

    La preparazione di Ferdinando, del quale ho visto numerose prove, è stata l’ennesima prova del suo sistema di lavoro: un po’ alla volta è riuscito a tirare fuori dai quattro attori la giusta dimensione interpretativa per rendere i toni chiaroscurali della vicenda che Ruccello racconta.

    Tutte le attrici e gli attori che lavorano con Anziteatro sono “lavoratori alla pari”. Non esiste il primo attore o la prima attrice: ad Anziteatro c’è totale democrazia e uguaglianza.

    Eleonora Benincasa, che a volte scherzosamente (ma poi nemmeno tanto) ho indicato come la mia attrice prediletta, è capace di una recitazione molto sanguigna, quella che serviva per una nobildonna decaduta e amareggiata come Donna Clotilde. Il suo stile – non so quanto consapevolmente – è basato su una totale immedesimazione nel personaggio da interpretare. La Perpetua che ha fatto per la parodia de I promessi sposi è esemplare in questo procedimento che la regia di Antonio sollecita negli interpreti. E la sua recitazione piena di colore non è tale solo nei personaggi comici, come qualcuno potrebbe pensare, bensì anche in quelli drammatici. Infatti, una volta ha interpretato un mio monologo dal titolo Ragazze segrete: non era facile, perché si trattava di interpretare una prostituta che rifletteva sulla sua vita. Ebbene, anche lì io ho visto Eleonora completamente trasfigurata nel malinconico personaggio che aveva scritto.

    Stefania Esposito l’ho vista per la prima volta, quando ha interpretato la narratrice nello Spusalizio. E fu per me una rivelazione! Per Ferdinando, a parte la misuratissima interpretazione di Donna Gesualda, è stata anche un’abile sarta: i costumi sono per lo più opera sua. Di lei, come ho apprezzato la spontaneità nel rendere, sempre attraverso un procedimento di immedesimazione, la narratrice, così non ho potuto non apprezzare la contenuta rabbia nell’interpretare Gesualda. Insomma, ha reso molto efficacemente quel misto di attrazione e di repulsione che la lega al controverso personaggio di Don Catello.

    Che è stato interpretato da mio cugino Giuseppe Vitiello. Io penso che la sua recitazione, a differenza di quella delle due attrici, sia di tipo diverso: non si immedesima, bensì imita. Chi è pratico di teorie della recitazione, saprà di cosa parlo. Per i più, dico che Giuseppe si approccia ai personaggi da inscenare con un’emotività controllata: il personaggio maschile che ha interpretato in Una donna è un uomo è una donna, era frutto di un’attenta calibrazione delle emozioni da rappresentare. E così anche per Don Catello, personaggio particolarmente problematico, ma che conserva la lucida razionalità del magistero religioso che è chiamato a ricoprire. Ecco: la recitazione di mio cugino è una recitazione in cui le emozioni sono contemperate da una giusta razionalità.

    Ferdinando lo ha interpretato mio fratello Sergio. Ora, a costo di risultare un po’ partigiano – ma chi mi conosce sa che non sono uno che si entusiasma facilmente, specie a teatro – devo dire che mio fratello negli ultimi anni mi ha dato più di un motivo di orgoglio. E non soltanto in campo teatrale. Ma, limitandomi a parlare solo di questo – in fondo questo diario parla di teatro – la tecnica recitativa di mio fratello si è affinata sempre più col passare del tempo, tant’è che oggi, pur senza avere una vera preparazione “accademica”, è capace di rendere le sfumature umorali di personaggi completamente diversi tra loro: dal comico Azzeccagarbugli de ‘Stu spusalizio nun s’ha da fare, all’eterogenea complessità dei problematici personaggi che ho scritto io; dallo strambo ladro di Non tutti i ladri vengono per nuocere, al borghese corrotto nel DNA di ‘A città ‘e Pullecamorra. Per ciascuno di questi tipi, la sua preparazione e il suo studio sono sempre attenti, con un’adesione emotiva praticamente totale, e i risultati che con il tempo ha conseguito fanno di lui un interprete che sa immedesimarsi in qualsiasi personaggio.

    Un cenno alle scenografie, opera, come sempre, di Teresa Francese, anche lei magnifica artigiana: realistiche e allusive nella giusta misura. Ma sul punto tornerò in qualche altra puntata di questo diario.

    Voglio dire, a mio fratello e agli altri (a tutti gli altri ragazzi e ragazze di Anziteatro), un “bravo”, che è sì un complimento, ma vuol essere anche un incoraggiamento e un invito a non adagiarsi sugli allori e ad andare avanti, pur tra le difficoltà che una compagnia teatrale affronta ogni volta. E voglio mandare un saluto affettuosissimo a Maria Teresa Falcone: lei sa perché. Se la compagnia teatrale del Centro Iniziative Culturali (che fu la prima incarnazione del progetto di compagnia teatrale che abbiamo avuto con Antonio) è diventata Anziteatro è anche merito suo e delle interpretazioni che ci ha regalato in tante occasioni.

    Una volta, Antonio disse dal palco che io ero l’autore che Anziteatro aveva più volte portato in scena. Io, invece, posso vantare il privilegio che le cose che scrivo sono portate in scena da una compagnia di teatro che è quello che ogni compagnia deve essere: una “fabbrica” di artigiani, che pur tra il rumore delle (inevitabili) discussioni, riesce sempre a lavorare per offrire un prodotto gradevole e interessante per il pubblico.

    Vincenzo Ruggiero Perrino


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