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    «È doveroso chiamarlo palazzo Doria»

    Il prof. Bernardo Spera interviene sulla questione “castello o palazzo Doria?”

    Su ANGRI ’80 di novembre, Giancarlo Forino, cultore di storia locale, con un argomentato articolo si è con convinzione pronunciato a favore del termine “castello” per nominare il principale monumento storico cittadino. Per far conoscere ai nostri lettori, in vista del dibattito-confronto che si terrà all’inizio di gennaio del prossimo anno 2024, altri punti di vista esistenti sull’annosa problematica, abbiamo accolto e pubblichiamo volentieri quello del prof. Spera, al fine di offrire ulteriori spunti per arricchire il confronto pubblico che si terrà a breve.

    «È DOVEROSO CHIAMARLO PALAZZO DORIA»

    Egregio direttore,

    ho letto e riletto, con interesse, l’articolo, a tutta pagina, apparso sull’ultimo numero del giornale che dirigi.

    Mi sono convinto a scriverti perché mi rivedo in quel “qualcuno” che ostinatamente persevera nel definire “palazzo” quello che comunemente viene appellato “castello”.

    Quel qualcuno, però, pur non essendo né ricercatore né cultore di eventi e tradizioni, ritiene di avere sufficienti argomenti, sia di storiografia che di linguistica, nei cui campi è opportuno muoversi per sciogliere il nodo.

    Seguirò, nella risposta, lo stesso ordine dell’articolo.

    In primis: è singolare che non si riscontri la chiara contraddizione presente nelle schede 15/00025155 e 15/00025156, redatte nel 1979 dalla Sovraintendenza ai beni ambientali ed architettonici della Campania (sez. Salerno), là dove inizialmente si legge “palazzo” e “scalone del palazzo” e poi, stranamente, si legge “castello”. Come a dire: fuori è un palazzo e dentro è un castello!

    Altrettanto singolare è l’affermazione che l’intero complesso si sia sviluppato intorno ad una torre circolare, quando è fin troppo evidente che esso è costituito da due corpi di fabbrica distinti e distanti fra loro per tempi e funzioni.

    È indubbio che la torre, più antica, risale al tempo delle contese fra il principato longobardico di Salerno ed il ducato bizantino di Napoli, quando il locus fu riconosciuto di alto valore strategico a causa delle continue contese e ricorrenti invasioni e quindi da presidiare militarmente.

    Sono dello stesso tempo triangolazioni di torrioni e di torrette sulle vie consolari Sarno-Nocera-Stabia e loro intersezioni, con funzioni sia di difesa che di avvistamento e di segnalazione di pericoli, in relazione al costante incremento abitativo.

    L’arrivo degli Angioini (1266) portò ad una sistemazione territoriale giuridica ed amministrativa, che comprendeva pure la veicolazione dell’immagine del potere da imporre e sostenere con opere monumentali possenti e visibili.

    Non è improbabile, perciò, che proprio uno dei loro feudatari abbia voluto, e pure dovuto, raffigurarsi in una di esse opere ed abbia ordinato la costruzione di un castello, che fissasse il dominio e il prestigio del signore.

    In assenza di prove documentali, è verosimile che il castello era già presente al tempo degli Aragonesi (1442) ed in quella forma pervenne alla famiglia Doria di Genova (1513).

    Il terzo Marcantonio della serie, sulla spinta dei nuovi canoni architettonici di trasformazione ed incorporazioni di torri e fortificazioni in residenze e ville, avviò nel suo feudo lo stesso processo di adeguamento, già corrente, in Campania come in Francia, dove i castelli divennero chateaux.

    La progettazione del palazzo fu affidata all’architetto Antonio Francesconi, che ordinò di sfabbricare il castello “ab imis fundamentis” e riutilizzare i materiali “innestandoli sulle antiche mura, muraglioni ed altro e per il nuovo ponte” (1757, Archivio Doria di Angri, Napoli, Parte Prima, Busta 236 Fasc. 1).

    Il successore Carlo (1796), nell’intento di ampliare lo spazio antistante, comprò “sette piccoli appezzamenti di terreno alli Concilij” sui quali l’architetto Schiantarelli di Napoli disegnò forma e funzione di un parco giardino.

    Così, in questo stato, il palazzo pervenne, per compravendita, al comune di Angri e così è riportato in documenti, carte e cartoline illustrate fino al 1970, quando, inspiegabilmente (o forse no?) fu ribattezzato castello.

    È, quindi, lecito, appellarlo palazzo? Altro che se è lecito! È doveroso!

    Per rendere più convincenti le precedenti argomentazioni, mi affido, passando nel secondo campo, alle norme della linguistica, da cui ricavo il basilare triangolo semiotico. Esso raffigura il funzionamento della significazione, costituita da significante, significato e referente, dove il significante è un segno, un suono o un’immagine che rinvia ad un significato (il contenuto, il concetto che sta dentro).

    Il significante, cioè, è il guscio esterno, l’involucro dentro il quale mettiamo la cosa che vogliamo significare (significato).

    Il referente costituisce il campo comune di significazione. Nel caso in questione il significante è il contenitore dentro il quale non c’è il contenuto che ci aspettiamo.

    Quale sarebbe la nostra reazione se dentro un guscio di noce non trovassimo il gheriglio ma un fagiolo? Nel caso riportato, è vero che una chiesa, anche se sconsacrata, resta pur sempre una chiesa. Ma se essa viene abbattuta ed al suo posto viene edificato un albergo, quale nome metterebbe un operatore turistico? Quello di chiesa o quello di albergo?

    Per concludere, mi affido ad una citazione di B. Brecht per rimarcare l’attenzione agli ipotetici flussi turistici: «Felice la terra che non ha bisogno di “castelli”, perché esiste anche altro».

    Bernardo Spera

    Pubblichiamo di seguito l’intervento di Giancarlo Forino, generale in pensione.

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