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    Il diario di guerra di una bambina

    di Raffaella Del Pezzo

    Come i più anziani ricorderanno, settembre del 1943 Angri fu sottoposta dal Valico di Chiunzi a continui cannoneggiamenti da parte dell’armata alleata. Mia nonna, che soleva ingigantire e drammatizzare tutti i ricordi, dava un resoconto terrificante degli anni di guerra e soprattutto delle sofferenze che aveva dovuto sopportare dopo l’8 settembre. In realtà ella dovette affrontare solo qualche disagio, tra cui il timore degli allarmi, la carenza di qualche genere alimentare, i vetri di balconi e finestre frantumati dagli scoppi delle granate. Poca cosa, se si pensa a quello che accadeva in altre città italiane e nel resto del mondo.
    Paradossalmente i miei ricordi di guerra, i ricordi di una fanciullina di sette anni, rievocano, invece, giorni allegri e trasgressivi: non più le monotone giornate di una figlia unica tra nonni anziani e giochi solitari, ma il sovvertimento del ritmo di vita: una casa piena di parenti ed amici (i cosiddetti sfollati), tra cui anche dei bambini,accampati alla men peggio; l’assenza di regole e di orari per i pasti. Mio padre aveva istallato un letto tra due guardaroba traboccanti di vestiti e biancheria, ritenendo che le stoffe facessero da scudo contro le granate e le schegge, mentre noi bambini lo utilizzavamo per giocare a nascondino.
    Mio nonno aveva fatto costruire in giardino un rifugio: non già un rifugio atomico, ma uno scavo di pochi metri coperto con tavole di legno e frasche in cui ci si stipava al primo allarme, una trappola per topi che sarebbe crollata al primo spostamento d’aria, se fosse stato colpito, e infatti crollò, vuoto, dopo un … acquazzone. I vetri delle finestre delle case erano stati oscurati, cioè dipinti di blu, per evitare che si intravedesse il centro abitato durante le incursioni aeree e di sera una ronda girava per il paese e urlava ‘Luce, luce!’ al minimo spiraglio che trapelava dalle finestre. Gli adulti erano terrorizzati, mentre a noi bambini pareva di vivere una delle avventure lette nei libri di favole.
    Una notte, credo in seguito ad un allarme aereo, ci rifugiammo nel Palazzo Doria: mentre mia nonna biascicava giaculatorie e qualcuno imprecava contro Mussolini che aveva voluto la guerra, mia madre mi raccontava una favola affascinante (di sua invenzione, visto che non l’ho mai più riascoltata) in cui alcuni cigni bianchi, volando
    nel cielo, si scontravano con le nubi provocando tuoni e bagliori (lo scoppio delle bombe e i lampi della contraerea). Non so se mia madre fosse tanto coraggiosa, perché, avendola persa l’anno  dopo, non l’ho conosciuta bene, ma so che mi ha educata a banalizzare la paura e a non spaventarmi davanti a niente. E così è stato! Da bambina odiavo il pane, anche perché mi dicevano: “Pe’ crescere n’hê mangià furne ‘e pane!” Ed io mi immaginavo dei forni traboccanti di pane che avrei dovuto ingurgitare per non restare una nanetta. Nel settembre del 1943 ero felice perché nessuno mi esortava a mangiare pane, visto che per alcune settimane i forni erano rimasti inattivi per carenza di materia prima. Mio
    nonno, che si occupava di esportazioni ed inviava al nord i prodotti della nostra campagna, in quell’autunno aveva
    una grossa partita di patate che avrebbe dovuto spedire in treno a Milano, cosa impossibile dato che l’Italia era
    divisa in due, con conseguente blocco di tutte le attività; vista la penuria di generi alimentari, aprì le porte del deposito e le patate furono distribuite a chiunque ne facesse richiesta. Ne conseguì una grande riconoscenza e molti cercarono di ricambiare il favore: si tornava, così, al baratto piuttosto che all’acquisto.
    A quei tempi in quasi tutte le famiglie si allevava un maialino che poi veniva immolato in inverno per ricavarne strutto, carne e salumi. I tedeschi, anch’essi a corto di cibo, cominciarono a requisire gli animali da macello, per cui chi ne possedeva preferì sopprimerli subito, piuttosto che vederseli portar via. Visto che le case ancora non disponevano di frigoriferi, la carne veniva distribuita tra amici e parenti: grandi offerte quindi di carne fresca arrivarono a casa nostra come merce di scambio per le patate.
    All’epoca anche nelle famiglie benestanti si mangiava carne solo una volta a settimana, per cui mio padre era molto soddisfatto dei doni e, in seguito, soleva dire che non aveva mai mangiato tanta carne come in quei giorni.
    Arrivavano a casa, infatti, piatti avvolti in panni di lino contenenti assaggi di varie parti dell’animale, il cosiddetto ‘spito’, un dono che si faceva ai vicini in occasione dell’uccisione del maiale, un termine napoletano che in seguito ho ipotizzato fosse un prestito dal longobardo spit (tedesco Spietz), da cui poi l’italiano ‘spiedo’. Ma questa è un’altra storia.
    I tedeschi avevano requisito e scavato trincee anche nel giardino della casa di mio zio, Mons. Vincenzo Del Pezzo (oggi “Casa del Padre” delle Suore Battistine) che, di conseguenza, venne furiosamente cannoneggiato dagli alleati con strage di alberi e abbattimento di una uccelliera che ospitava tanti graziosi uccellini. La scala che immetteva nel giardino era stata transennata con divieto assoluto di accedervi. Naturalmente nessuno si sognava di avvicinarsi… tranne me che per curiosità o per spirito di avventura per ben due volte riuscii ad eludere la sorveglianza e a sgusciare tra le assi (ero molto smilza e riuscivo a insinuarmi dappertutto). I tedeschi accucciati nelle trincee erano biondi, molto giovani, ma con un’aria triste: forse erano ragazzi di leva; certo non avevano l’aspetto truce dei nazisti. Probabilmente la presenza di una bimbetta dai riccioli neri che si aggirava tra le buche, li distrasse, li rallegrò, per cui mi sorrisero e fecero il gesto di offrirmi qualcosa che stavano mangiando. Una sera li sentii cantare: era un canto triste, dolcissimo che non ho mai più riascoltato, neanche quando, dopo molti anni, in Germania chiesi di risentire i canti di guerra. Una mattina due di quei soldati, armati di mitra, fecero irruzione a casa mia: ho saputo dopo che cercavano merci da requisire o giovani da catturare. Con le mie cuginette ero seduta sul divano e, mentre tutta la famiglia era terrorizzata, io, invece, li salutai, ricambiata, con un sorriso: erano i miei amici, i complici della mia scappatella.
    Una notte improvvisamente, dopo circa venti giorni, i tedeschi lasciarono il paese e finalmente l’armata alleata decise di avventurarsi in pianura. Pur non avendo vinto nessuna battaglia, furono accolti da trionfatori tra ali di folla festante a cui lanciavano biscotti e caramelle. I cocci di vetri infranti furono raccolti, i balconi raprirono i battenti, il paese fu invaso da carne in scatola, biscotti, pagnotte di pane bianco e coperte militari, di un colore smorto e che venivano rapidamente tinte per occultarne la provenienza. Tra mille difficoltà, la vita riprese il suo ritmo, io ritornai a scuola con divieto assoluto di accettare i doni che gli americani elargivano con molta disinvoltura in ogni angolo delle strade.
    Quel periodo rimase nel mio immaginario infantile una parentesi allegra, trasgressiva e, comunque, indimenticabile, finché più tardi non capii quanto atroce fosse stato il comportamento dei nazisti e quello che il settembre del 1943 era stato per la nostra gente.

    (dal numero di Settembre 2013)

    2 Commenti a Il diario di guerra di una bambina

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