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    I volontari de “La tua Nazionale” propongono un’altra iniziativa esplosiva. «C4, comunicare, condividere, crescere: coworking».

    «Altrove lo chiamano solo coworking. Noi ne offriamo un’interpretazione più dirompente». Giuseppe D’Ambrosio, portavoce del movimento, precisa il senso della proposta.
    «Occorre recuperare il tessuto sociale cittadino. Le persone non si ascoltano, non condividono, si osservano a distanza, impegnate in una competizione perpetua. Siamo sempre meno comunità e sempre più somme di solitudini. Questo accade anche tra i giovani professionisti. Ed è a loro che intendiamo rivolgerci». Insieme per crescere meglio. «Condividere, non per dividere con gli altri, ma per unire esperienze, di lavoro e personali, per abbattere paure, invidie e anche costi. L’idea è allestire uno spazio dove chi si affaccia alla professione possa incontrare altri e confrontarsi, mettendo insieme risorse, seminando idee nei momenti di pausa, andando oltre se stesso». Un progetto che ha dei precedenti altrove. «Le criticità che ci hanno mosso sono comuni a molti territori. Al nord le amministrazioni locali hanno fornito strutture per superare l’emergenza dei giovani professionisti non in grado di sostenere i costi di un ufficio. Con la scusa del risparmio, i ragazzi sono costretti a ragionare insieme». L’altro come compagno di viaggio sul percorso della professione e della formazione, non come rivale. «La condivisione va oltre lo spazio di lavoro. Immaginiamo convenzioni con strutture sportive e ricreative. Un laboratorio che consenta di riprodurre le dinamiche dei compagni di classe. Si stava insieme a scuola, alcuni studiavano in gruppi, altri frequentavano la stessa palestra, si usciva in comitiva: i singoli si facevano comunità e si cresceva insieme. Le strutture ci sono. Penso alla biblioteca comunale, ai beni confiscati alla camorra. Non è un problema di spazi. L’emergenza vera è il riconoscimento della criticità». C4 per abbattere le barriere delle solitudini urbane. «Solitudini sorte sul fertile terreno di un’interpretazione patologica della competizione. Si osserva l’altro solo per carpirne i segreti del successo. Sia chiaro: non per emularlo nel percorso di formazione, ma per capire a quali rapporti ha attinto per affermarsi, quali corsie preferenziali ha percorso, quale padrino lo ha accompagnato. E così non va. È un atteggiamento lacerante, che mina lo sviluppo corretto della classe dirigente del nostro paese. Oggi si tende a lanciare pietre per fermare l’altro e ricondurlo al livello degli altri. Nessuno si impegna in uno slancio sano, non dopato, per conseguire l’identico successo e raggiungere con gli altri il comune traguardo», conclude D’Ambrosio.

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